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Patto di Non Concorrenza: la Corretta Modalità di Pagamento e la Gestione Previdenziale e Fiscale.

Set 24, 2019

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Il patto di non concorrenza è un tema molto discusso sia nelle aule dei Tribunali che nelle aziende.

Il patto di non concorrenza, come noto, ha lo scopo di limitare lo svolgimento di attività concorrenziale, da parte del lavoratore, successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, applicandosi durante il rapporto il divieto di concorrenza ai sensi dell’art. 2105 Codice civile.

L’unica norma nel nostro ordinamento che disciplina l’istituto è l’articolo 2125 c.c. che tratta le ipotesi di nullità del patto e la durata massima dello stesso.

Nello specifico, il patto, affinché sia valido deve:

  • Risultare da atto scritto;
  • Prevedere un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro;
  • Stabilire un vincolo determinato in specifici limiti di oggetto, tempo e luogo.

Per quanto attiene alla durata, può essere al massimo di 5 anni per i dirigenti e 3 anni per tutti gli altri prestatori di lavoro inquadrati nelle diverse categorie. Qualora fosse apposta al patto una durata superiore a quanto stabilito dalla Legge questo non determinerà la nullità del patto ma solo la riduzione della stessa entro termini legali.

Indipendente dalle modalità di redazione del patto di non concorrenza, il quale deve essere pensato ad hoc e costruito su misura per ogni caso, vediamo nel dettaglio le modalità di pagamento del corrispettivo e quali sono gli aspetti contributivi e fiscali da tenere in considerazione.

MODALITÀ DI PAGAMENTO DEL CORRISPETTIVO

Il corrispettivo pattuito per il divieto di concorrenza post contrattuale può essere pagato secondo diverse modalità:

  • durante il rapporto di lavoro con cadenza mensile;
  • alla cessazione del rapporto in unica soluzione o in forma rateale;
  • in forma mista, ovvero tramite il pagamento di una somma durante il rapporto e un conguaglio alla fine del rapporto di lavoro.

La distinzione fondamentale tra il pagamento del corrispettivo durante il rapporto di lavoro o alla cessazione dello stesso sta nel trattamento fiscale e contributivo.

Infatti, nel primo caso (durante il rapporto di lavoro), il pagamento viene assimilato alla retribuzione pertanto la somma è interamente soggetta a contribuzione previdenziale e la stessa si cumula con la retribuzione imponibile corrente sottoposta a tassazione ordinaria (con applicazione delle aliquote per scaglioni di reddito).

Nella seconda ipotesi invece, pagamento al termine del rapporto di lavoro, la somma sarà soggetta esclusivamente a tassazione separata in quanto indennità percepita una volta tanto in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 17, co. 1 – lett. a), DPR 917/1986. Per quanto riguarda il trattamento previdenziale vi sono opinioni contrastanti.

Parte della dottrina, in considerazione del principio di armonizzazione tra imponibile previdenziale e fiscale, sostiene che il corrispettivo derivante dal patto di non concorrenza se pagato alla fine del rapporto di lavoro sia esente da contribuzione in quanto non derivante dal rapporto di lavoro.

Sul punto si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza 16489/2009, precisando che il corrispettivo derivante dal patto di non concorrenza, anche se pagato dal datore di lavoro successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, rientra, ai sensi dell’art. 12 L. 12/4/69 n. 153, nella base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali, in quanto emolumento erogato in dipendenza di un  rapporto di lavoro subordinato – anche se basato su un’obbligazione di non facere con adempimento posticipato alla cessazione del rapporto.

Secondo l’orientamento della dottrina, solo se il patto di non concorrenza interviene quando il rapporto è già cessato, per autonomo accordo fra ex datore di lavoro ed ex dipendente, risulta scollegato dal concetto di retribuzione e pertanto è da ritenersi esente da contributi. 

QUANDO IL CORRISPETTIVO RIFERITO AL PATTO DI NON CONCORRENZA DIVENTA PARTE DELLA RETRIBUZIONE ORDINARIA?

Il tribunale di Milano con sentenza n. 1131/2016 si è pronunciato proprio sul tema di nullità del patto di non concorrenza dal punto di vista della “natura” del corrispettivo.

Nel caso in esame la società ricorrente chiedeva il risarcimento del danno in capo al dipendente per violazione del patto di non concorrenza. Il patto è stato analizzato da parte del giudice, oltre che dal punto di vista dell’adeguatezza del corrispettivo, anche sotto l’aspetto dell’erogazione dello stesso.

Esso infatti era stato erogato in costanza di rapporto per n° 13 mensilità e riparametrato alle giornate di effettiva prestazione.

Tale emolumento è stato qualificato come vera e propria retribuzione in quanto controprestazione rispetto all’attività lavorativa dato che non si trattava di un importo fisso e costante ma variava in base alle giornate di lavoro.

Con tale sentenza, il giudice di merito ha rigettato il ricorso della società, decretando la nullità del patto senza alcuna restituzione delle somme, in quanto nessun corrispettivo risultava in conclusione a tal titolo corrisposto.

Questa sentenza ci conferma come un patto di non concorrenza stipulato male possa non solo portare alla nullità del patto e quindi alla concorrenza senza limite da parte dell’ex dipendente, ma anche alla perdita delle somme erogate (se qualificate) come “retribuzione”.

Nel caso di specie, infatti, ferma restando la nullità del patto, le somme già erogate al lavoratore non sono state recuperate dal datore di lavoro in ragione della nullità, ovvero della violazione, del patto, ma sono rimaste nel patrimonio del dipendente in quanto retribuzione “mascherata” e pertanto non ripetibile.

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