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In molte società, di dimensioni più o meno importanti, ci si può spesso trovare nella situazione dove il socio, l’amministratore o il presidente del consiglio di amministrazione sono al contempo inquadrati anche come lavoratori subordinati (intendiamoci, anche apicali o di tipo dirigenziale), con ruoli ben precisi nell’organico aziendale o a capo di funzioni specifiche. In questo caso, è legittima la loro duplice veste nei confronti degli istituti o vi potrebbero essere delle problematiche?

Recentemente la Corte di Cassazione è ritornata sul punto, confermando alcuni principi giurisprudenziali che ora andremo a ripercorrere insieme.

Il caso

La società accusata del reato aveva in essere due rapporti di lavoro subordinato con due soci, ai quali aveva corrisposto retribuzioni che si era poi portata in deduzione ai fini IRES. Il caso aveva quindi spinto l’Agenzia delle Entrate a chiedere la ripresa fiscale delle somme indebitamente dedotte dal reddito d’impresa.

La Commissione tributaria di Cagliari, in prima istanza, aveva accolto le richieste dell’Agenzia e di conseguenza la società era ricorsa in appello alla Commissione Tributaria regionale.

La Commissione Tributaria della Sardegna aveva infatti parzialmente accolto l’appello della società istante (precedentemente rigettato dalla Commissione Tributaria di Cagliari), sostenendo come i compensi da lavoro subordinato corrisposti ai soci amministratori risultassero inerenti all’attività e quindi deducibili dal reddito d’impresa.

L’Agenzia, non essendo della stessa idea, ha quindi proposto ricorso in Corte di Cassazione, la quale ha da subito ribadito l’orientamento oramai consolidato secondo cui i due ruoli ed i conseguenti compensi sono compatibili purché non si tratti di un soggetto amministratore unico, presidente del consiglio di amministrazione ovvero di un socio c.d. “sovrano”.

Secondo l’Agenzia delle Entrate risultava però mancante il vincolo di subordinazione e di assoggettamento al potere gerarchico, direttivo e disciplinare – necessario per poter dedurre le retribuzioni erogate dal reddito d’impresa – in quanto dei due soci il primo aveva piena autonomia decisionale, ed il secondo era presidente del consiglio di amministrazione della società.

Veniva inoltre rilevato come vi fosse un’uguaglianza tra le mansioni svolte come socio e come presidente del consiglio di amministrazione e quelle espletate come lavoratori subordinati.

Visto quanto sopra, secondo il ricorrente (l’Agenzia delle Entrate) la società avrebbe dedotto indebitamente costi non inerenti per stipendi e contributi, in particolare in riferimento all’IRES (Imposta sul reddito delle società).

La risposta della Corte ribadisce però come è del tutto compatibile la posizione di socio di società di capitali con quella di amministratore della stessa, tranne per le ipotesi di amministratore unico, presidente del consiglio di amministratore o di socio “sovrano” (Cass. Sez.5, 28 aprile 2021 n°11161)”.

La Corte poi afferma che la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali, anche se composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato (anche a livello dirigenziale) purché il vincolo della subordinazione risulti comunque da un concreto assoggettamento del socio (es. nel caso di un socio componente del consiglio di amministrazione ben potrebbe lo stesso risultare anche dipendente della società purché sia assoggettato al potere di controllo dello stesso consiglio di amministrazione).

Non sono quindi sufficienti per qualificare la legittimità del rapporto i consueti indici di subordinazione come la percezione di una regolare retribuzione, il rispetto di un orario di lavoro ben definito, l’assenza di rischi e di un’organizzazione imprenditoriale etc. (Cass. 18476/2014).

Ritornando quindi al caso in esame, la Corte ricorda come la qualità di socio anche “maggioritario” di una società di capitali, non ostacola di per sé la presenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il socio e la stessa, purché appunto si ravvisi il succitato vincolo di subordinazione, almeno potenziale, tra le parti. Nel caso in esame il primo dei soci ricopriva la carica di presidente del consiglio di amministrazione escludendo a prescindere ogni forma di subordinazione con la società, mentre il secondo socio in qualità di membro del consiglio di amministrazione ad una prima analisi sembrerebbe rispettare quanto detto finora, e legittimare quindi l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e la sua conseguente deduzione in capo ai redditi sociali.

In realtà la Corte fa una riflessione ulteriore, puntualizzando che il giudice d’appello avrebbe dovuto innanzitutto verificare la legittimità del rapporto di lavoro subordinato e l’esistenza di un potere direttivo su di esso gravante ma, al netto di questo, per la Corte la qualità di amministratore di una società di capitali è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della stessa solo ove sia accertata l’attribuzione di mansioni diverse dalle funzioni proprie della carica sociale rivestita.

Per tutte queste motivazioni, la Corte accoglie infatti il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, rinviando la causa alla Commissione tributaria della Sardegna (in diversa composizione).

Posizione dell’INPS

Con un messaggio del 2019 (Messaggio 3359/2019) l’INPS riepiloga la sua posizione in merito alla compatibilità tra lavoro subordinato e le principali cariche societarie, ripercorrendo e confermando l’orientamento giurisprudenziale che si è formato dagli anni ’90 ad oggi. Tralasciando la disamina puntuale delle singole posizioni di cui al messaggio INPS, l’istituto evidenzia alcune regole fondamentali.

Innanzitutto, la verifica della compatibilità deve iniziare dal rispetto o meno di un vincolo di subordinazione con la società “quale elemento tipico qualificante del rapporto di lavoro ex art. 2094 c.c.” sottolineando che chi intende far valere la subordinazione deve provarla nonostante la carica sociale ricoperta. Il soggetto dovrà inoltre provare di dover sottostare anche al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società nel suo complesso essendo quindi limitato nella libertà di azione e di scelta (Cass. civ. n. 24972/2013, n. 18476/2013 e n. 18414/2013).

Come ribadito dalla Corte nel caso in esame, l’INPS ricorda che il soggetto deve provare anche la difformità tra le mansioni svolte in qualità di lavoratore subordinato e quelle svolte in qualità di amministratore.

L’istituto poi ci dice che “ai fini dell’accertamento del rapporto di lavoro dipendente si terrà conto della sussistenza anche di altri elementi sintomatici della subordinazione individuati dalla giurisprudenza e riproposti dalla prassi amministrativa  adottata dall’Istituto (cfr. le circolari n. 179/1989 e n. 117/1983), quali la periodicità e la predeterminazione della retribuzione, l’osservanza di un orario contrattuale di lavoro, l’inquadramento all’interno di una specifica organizzazione aziendale, l’assenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale, l’assenza di rischio in capo al lavoratore, la distinzione tra importi corrisposti a titolo di retribuzione da quelli derivanti da proventi societari, etc.”.

Infine, l’INPS riepiloga le condizioni di massima che andrà a verificare di volta in volta e che saranno utili al fine di valutare la corretta compatibilità tra i due ruoli (gestorio e dipendente):

  • In prima istanza il potere deliberativo (quindi la volontà sociale) deve essere affidato ad un organo collegiale, plurimo;
  • In secondo luogo, deve essere fornita una rigorosa prova della veridicità e fondatezza del vincolo di subordinazione tra lavoratore/amministratore e società (anche se in forma attenuata ove si tratti di rapporto dirigenziale);
  • Infine, il soggetto deve svolgere nel concreto mansioni diverse rispetto al rapporto organico con la società. Devono quindi ricomprendere mansioni estranee ai poteri gestori derivanti dalla sua carica nella società o dalle deleghe conferitegli.

Ma cosa accade in caso l’INPS ritenga non legittimo il rapporto di lavoro in essere?

In questo caso l’istituto può disconoscere il rapporto di lavoro subordinato, il lavoratore avrà quindi ovviamente diritto al rimborso dei contributi versati ma rimarrà comunque sprovvisto di ogni forma di trattamento pensionistico maturata.

Di conseguenza il rischio per la società è che il lavoratore sia poi spinto ad azionare una causa contro la stessa, al fine di vedersi riconoscere il danno per l’erroneo inquadramento attribuito al suo ruolo.

Differenziazioni tra i due inquadramenti

Nel caso di rapporto di lavoro dipendente dobbiamo riferirci, per gli aspetti fiscali, all’art. 49 comma 1 del T.U.I.R. (Testo unico imposte sui redditi D.P.R. 917/1986) contenente i redditi da lavoro dipendete, mentre per gli aspetti previdenziali vengono applicate le normali aliquote INPS previste sulla base dell’inquadramento aziendale.

Nel caso invece di compenso corrisposto ad un amministratore dovremmo far riferimento all’art. 50 comma 1 lett. c) -bis del T.U.I.R. in quanto redditi assimilati ai redditi da lavoro dipendente (lo stesso articolo cita esplicitamente la carica di amministratore) mentre dal punto di vista previdenziale i versamenti saranno accreditati alla gestione separata INPS, secondo le aliquote previste annualmente dall’istituto stesso (da ultimo circolare INPS 25/2022).

Conclusioni

L’INPS e l’Agenzia delle entrate non vedono questi “duplici” rapporti di buon grado, è quindi importante per la società procedere con prudenza, preparandosi già ad eventuali contestazioni anche qualora sulla carta gli stessi siano rispettosi delle previsioni qui analizzate e quindi perfettamente legittimi.

Occorrerà in particolare, al fine di evidenziare eventuali criticità, esaminare accuratamente le deleghe sociali, i poteri, il ruolo e le mansioni del soggetto e la loro compatibilità con l’eventuale rapporto di lavoro subordinato.

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