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La Conciliazione Sindacale è Impugnabile

Mag 28, 2019

Questo recita il Tribunale di Roma nella sentenza 4354 dell’8 maggio 2018.

Nel caso di specie il lavoratore richiedeva la riqualificazione del suo rapporto di lavoro, ab origine, in lavoro subordinato a tempo indeterminato, con conseguenti e connesse ripercussioni sul fronte retributivo. Dal canto suo la società ne eccepiva l’inammissibilità in forza della conciliazione sindacale intercorsa tra le parti.

Nella realtà di tutti i giorni la conciliazione sindacale è uno strumento smart e diffusamente utilizzato dalle aziende in svariate situazioni, con lo scopo di risolvere una controversia di lavoro insorta tra datore di lavoro e lavoratore. Volendo trasportare questo concetto in termini concreti, una conciliazione può risultare utile nel dirimere un’ipotesi di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in caso di passaggi di livello, gestione di ore lavorate e non retribuite, mancato pagamento del TFR, inadempienze contrattuali (es mancata corresponsione della retribuzione) ecc.

Secondo l’attuale normativa, le conciliazioni per essere “tombali” devono avvenire in una “sede protetta”, alternativamente quella amministrativa, dinanzi alla commissione di conciliazione dell’ispettorato del lavoro; sindacale; giudiziale; ovvero per il tramite dell’istituto della certificazione, dinanzi alle apposite commissioni.

Proprio le conciliazioni sindacali sono oggetto della Sentenza in commento. Secondo il Giudice, infatti, le rinunce firmate dai lavoratori in sede sindacale sono impugnabili se il contratto collettivo di riferimento non disciplina l’istituto della conciliazione. A medesime conseguenze se il rappresentante sindacale che sottoscrive il verbale non fornisce effettiva assistenza al lavoratore.

Fonte normativa

È il codice di procedura civile (in particolare agli artt. 411 e 412-ter) la fonte normativa dello strumento in trattazione, che ne delinea anche gli elementi sostanziali essenziali:

– le materie che possono essere oggetto di conciliazione;

– le previsioni nel merito sono contenute nel CCNL applicato al rapporto di lavoro.

Con riferimento alle materie, la fonte succitata fa riferimento all’art 409 cpc (rubricato Controversie individuali di lavoro) che cita espressamente (limitandoci a riportate quanto qui interessa): i rapporti di lavoro subordinato privato” ed i “rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato…”.

La materia pertanto oggetto di conciliazione è potenzialmente ampissima, a limitarla talvolta (come di seguito vedremo) intervengono i singoli CCNL.

TUTTO PUÒ ESSERE OGGETTO DI CONCILIAZIONE?

No. La conciliazione deve necessariamente rispettare l’articolo 2113 c.c., rubricato appunto “Rinunce e Transazioni”.

A tutela del lavoratore (da sempre considerato soggetto debole) la legge individua una categoria di diritti definiti inderogabili, ovvero derivanti da disposizioni vincolanti della legge e dei contratti o accordi collettivi, che se non sono oggetto di conciliazione nelle sedi protette, o sono impugnate nei tempi di decadenza previsti dalla norma, “non sono validi”. A questi si affiancano anche dei diritti c.d. indisponibili, assolutamente non rinunciabili (come quelli non ancora entrati nella disponibilità del soggetto futuri e non ancora maturati, ad esempio la retribuzione prima della spettanza del diritto), a pena di nullità a cui si contrappongono i diritti invece pienamente rientranti nella disponibilità del lavoratore (quindi esclusi dalla disciplina limitativa dell’art 2113 c.c.).

Tra gli inderogabili ritroviamo sicuramente il diritto alle ferie, la cui irrinunciabilità è sancita dall’articolo 36 Costituzione, il diritto alla salute, il diritto al riposo giornaliero (undici ore tra una prestazione e l’altra, salva l’ipotesi del lavoro frazionato o della reperibilità, come previsto dal D.Lgs. n.66/2003), settimanale (anche calcolato come media su quattordici giorni, secondo la previsione contenuta nella L. n.133/2008).

A proposito di quest’ultimo istituto occorre ricordare come l’art.10 del D.Lgs. n.66/2003 ne riconosca il diritto nel limite delle quattro settimane, cosa che ha portato anche il Ministero del Lavoro, con la Circolare n.8/2005, a sostenere come l’ulteriore periodo (ad esempio, la quinta settimana) possa essere oggetto di monetizzazione.

Al contrario i diritti di cui il lavoratore può disporre liberamente annoverano sicuramente: i trattamenti economici derivanti da accordi individuali (esempio classico il “superminimo”) e non dalla contrattazione collettiva; il periodo di preavviso; le dimissioni (fatti salvi i casi normativamente disciplinati come la maternità ed il matrimonio); la risoluzione di un rapporto di lavoro con accettazione di una somma a titolo di accettazione del provvedimento, in quanto sicuramente la continuazione o meno di un rapporto di lavoro rientra nella sfera della disponibilità del lavoratore.

E’ invece nella disponibilità delle parti il tema delle mansioni. Ai sensi del rinnovato art. 2103 c.c. il lavoratore deve essere adibito alle mansioni di assunzione o quelle acquisite successivamente, con adibizione continuata per almeno tre mesi (fatta salva la tutela di diritti maggiormente garantiti come la salute del lavoratore).

Al sesto comma, però, si prevede che, avanti alle commissioni di certificazione, oppure nelle sedi di conciliazione espressamente citate dal quarto comma dell’art 2113 c.c., possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Al di fuori delle ipotesi consentite dall’art. 2103 per espressa previsione di legge “ogni patto contrario è nullo”.

Al di là dei diritti esclusi (sopra evidenziati), al comma quarto l’art 2113 c.c. riconosce e fa salve le conciliazioni (anche sindacali) avvenute tra le parti ai sensi degli articoli 185, 410 e 411, 412 ter e 412 quater c.p.c., le c.d. Conciliazioni in sede protetta.

 

FORMA E CONTENUTI DEL VERBALE DI CONCILIAZIONE.

Dal punto di vista formale, il verbale di conciliazione deve contenere degli elementi essenziali:

  • L’individuazione delle parti. Il verbale di conciliazione di fatti è un accordo trilatero: società datrice di lavoro eventualmente assistita da un professionista; il lavoratore eventualmente assistito da un sindacato e/o da un professionista; il conciliatore sindacale. E’ essenziale che le parti siano state individuate specificatamente e abbiamo potere di conciliare la controversia;
  • Ai fini della legittimità dell’accordo in sede sindacale è essenziale che il conciliatore abbia ricevuto specifico mandato a rappresentare ed operare per conto del lavoratore assistito.
  • La preventiva informativa, svolta dal conciliatore o dalla Commissione nei confronti del lavoratore, circa gli effetti propri della conciliazione (ai sensi dell’art. 2113, comma 4°, c.c. e dell’art. 412 ter c.p.c) – presupposto legittimante l’accordo.
  • Le premesse. Ovvero le circostanze che hanno determinato la circostanza oggetto di conciliazione.
  • Le modalità conciliative individuate dalle parti, preferibilmente a contenuto economico.

Non da ultimo in termini di importanza la dicitura conclusiva del verbale. Il verbale deve essere “letto, confermato” e “sottoscritto” individualmente da tutte le parti (quindi tre distinte firme) contestualmente alla firma dello stesso. 

SEDI DELLA CONCILIAZIONE PROTETTA

L’articolo 2113, comma 4, c.c., come prima affermato, riconosce infatti piena validità alle conciliazioni delle controversie in materia di lavoro se intervenute ai sensi delle seguenti disposizioni di legge:

  • articolo 185 c.p.c. cioè in sede giudiziale.
  • articolo 410 c.p.c.: in sede amministrativa e più specificatamente secondo le regole e le disposizioni previste dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro;
  • articolo 411 c.p.c.: in sede sindacale. Si prevede, infatti, che “Se il tentativo di conciliazione si è svolto in sede sindacale, ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 410”, nulla aggiungendo al riguardo;
  • articoli 412-ter e 412-quater che indicano ulteriori sedi di conciliazione. In particolare l’articolo 412-ter, oggetto della sentenze del Tribunale di Roma dispone che “La conciliazione e l’arbitrato, nelle materie di cui all’articolo 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”.

Da ultimo, ai sensi dell’articolo 82, D.Lgs 276/2003, anche le Commissioni di Certificazione “sono competenti altresì a certificare le rinunzie e transazioni di cui all’articolo 2113 del cod. civ. a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse“, aggiungendosi al novero delle sedi nelle quali l’atto conciliativo è per c.d. “protetto”.

 

Due riflessioni:

  • Il tema della conciliazione in sede sindacale, viene espresso dall’art 2113 c.c. in due diversi riferimenti normativi.
  1. Nel primo caso, art. 411 c.p.c., non vi è alcuna indicazione pratica circa la modalità di convocazione e svolgimento della procedura di conciliazione e nemmeno delle caratteristiche del sindacato coinvolto (rappresentativo, di settore, a cui il lavoratore è iscritto?).
  2. Nel secondo caso, art. 412-ter, il riferimento è specifico. Debbono applicarsi le procedure sindacali e solamente quelle dei contratti collettivi sottoscritti dai sindacati maggiormente rappresentativi. Un tema tutt’altro che agevole, nella disciplina del diritto del lavoro, dove la definizione di rappresentativo non è ancora stata coniata;
  • Applicare esclusivamente l’art. 412-ter significa non dare la possibilità di attuare tale forma conciliativa tutte le volte in cui il contratto collettivo non disciplina una specifica procedura conciliativa, oltre a non dare garanzia di tutela dei propri iscritti ai sindacati non rappresentativi secondo gli stessi criteri dell’art. 412-ter. Ritenere che tale funzione conciliativa possa essere assolta solo da un sindacato rappresentativo o leader farebbe emergere chiari profili di discriminazione e di violazione dei principi di garanzia del c.d. pluralismo sindacale.

 

LE CONTROVERSIE EX. ART. 412-ter IN ALCUNI CONTRATTI COLLETTIVI

 

CCNL TERZIARIO CONFCOMMERCIO

Prevede l’istituto della conciliazione sindacale in modo molto dettagliato.

  • Nello specifico, l’art. 37 bis prevede che il tentativo di conciliazione deve essere espletato entro il termine di giorni 60 dalla data di ricevimento o di presentazione della richiesta da parte dell’Associazione imprenditoriale o della Organizzazione sindacale a cui il lavoratore conferisce mandato.
  • Il processo verbale di conciliazione, anche parziale, o di mancato accordo viene depositato a cura della Commissione di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio.

CCNL PUBBLICI ESERCIZI – CONFCOMMERCIO

  • Dedica un intero articolo (art. 33 “Procedure per la conciliazione delle vertenze individuali”) alle conciliazioni sindacali prevedendo che le vertenze individuali relative ai rapporti di lavoro subordinato tra le aziende e il personale dipendente devono prima essere sottoposte all’esame di una Commissione di conciliazione.
  • Nello specifico si prevede che la commissione di conciliazione in sede sindacale deve essere composta da un rappresentante dell’Associazione imprenditoriale locale alla quale l’azienda aderisce e/o conferisce mandato e da un rappresentante della Organizzazione sindacale locale dei lavoratori alla quale il dipendente è iscritto e/o conferisce mandato, in quanto parti stipulanti il c.c.n.l.
  • Anche la richiesta di conciliazione è disciplinata, dovendo contenere gli elementi essenziali della controversia, e poi essere inviata presso la sede della Commissione, a mezzo raccomandata con avviso di ricevuta o altro mezzo equipollente. Ricevuta la richiesta, la segreteria della Commissione, convoca le parti per una riunione. Questo tentativo di conciliazione deve essere espletato entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta al termine del quale deve essere redatto verbale sia nel caso di composizione della stessa, sia nel caso di mancato accordo. I verbali di conciliazione o di mancato accordo, devono poi essere redatti in sei copie, sottoscritti dalle parti interessate e dai componenti la Commissione.
  • In questo caso il CCNL prevede espressamente l’obbligo di deposito di una copia del verbale presso la Direzione del lavoro competente per territorio ai sensi degli 411 e 412 del codice di procedura civile.

Sentenza del tribunale di Roma n°4354 dell’08 maggio 2019

Vedi la sentenza del tribunale di Roma n°4354 dell’08 maggio 2019.

Nel caso esposto in premessa i giudici romani di primo grado, hanno invalidato la conciliazione per due sostanziali ragioni:

 “Motivo formale

Corrispondente alla carenza di assistenza sindacale prestata al lavoratore (rilevata tramite testimonianza dei soggetti coinvolti). A detta del lavoratore “il 21.4.2015 alle ore 10.30 venivo chiamato nella sala riunioni dell’Amministratore Unico dove trovava quest’ultimo, il consulente del lavoro e una persona sconosciuta che in quell’occasione le veniva presentato come rappresentante sindacale e le veniva fatto firmare un documento intitolato “verbale di conciliazione in sede sindacale”, dichiarando che la firma dello stesso era condizione per proseguire il rapporto, che in mancanza sarebbe finito seduta stante; che in quell’occasione il rappresentante sindacale (conciliatore designato dalla CISL Roma), rimaneva in silenzio per tutto l’incontro”.

Il lavoratore denuncia di essersi sentito costretto a firmare il verbale, riprendendo poi la sua attività̀ lavorativa e continuando a lavorare fino alle 17.00;

In ragione di ciò, il Lavoratore avanzava anche la condanna al pagamento di € 25.000,00 a titolo di risarcimento del danno morale riconducibile alla condotta negligente del sindacalista che avrebbe omesso di svolgere la dovuta assistenza alla lavoratrice nel corso del rapporto di lavoro (poi evidentemente non accolta dal giudice, in quanto relativa a pretese, differenze contributive, facenti riferimento ad un periodo temporale antecedente a quello di intervento del sindacalista).

Motivo sostanziale”

Secondo la Sentenza sopraccitata le uniche rinunce e transazioni in sede sindacale coerenti con il dettato dell’art. 2113 c.c. sono esclusivamente quelle siglate ai sensi dell’art. 412 ter del codice di procedura civile.

La norma processuale, lo ricordiamo, fa riferimento alle conciliazioni firmate in sede sindacale “con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”.

Pertanto secondo il Giudice, sono inoppugnabili solo le conciliazioni previste e disciplinate dai contratti collettivi; se il contratto collettivo non regolamenta la procedura di conciliazione (come nel caso di specie e in moltissimi settori produttivi), l’atto firmato dal lavoratore può essere impugnato.

IN CONCLUSIONE

Ora, fermo restando l’autorevole parere del Tribunale di Roma, se questa posizione divenisse maggioritaria, le conseguenze sarebbero operativamente complesse.

Una “ordinaria” conciliazione in sede sindacale, senza rispettare i dettami del contratto collettivo (che nella maggior parte dei casi nemmeno disciplina tale procedura conciliativa) paradossalmente limiterebbe l’efficacia “tombale” ai soli accordi sottoscritti in sede amministrativa (presso l’Ispettorato del Lavoro) ovvero presso le Commissioni di Certificazione.

Una soluzione non certo apprezzata dal sindacato stesso e che aumenterebbe il ricorso alla sede amministrativa, con conseguente allungo dei tempi per la definizione stragiudiziale della controversia.

 

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