È Possibile Ridurre la Retribuzione del Dipendente?
La retribuzione, nel rispetto di quanto previsto dalla Costituzione, è un diritto irrinunciabile del lavoratore e costituisce la prestazione fondamentale cui è obbligato il datore di lavoro nei confronti del prestatore di lavoro, quale corrispettivo a fronte della prestazione svolta.
Nella retribuzione vengono quindi ricomprese tutte le somme dovute al lavoratore come compenso per lo svolgimento di attività lavorativa.
L’art. 36 della Costituzione stabilisce che la retribuzione cui ha diritto il prestatore di lavoro deve essere:
- proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato;
- in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Fermo restando il rispetto di questo inderogabile principio costituzionale, in via generale, la retribuzione è determinata liberamente dalle parti, nel rispetto però di un limite minimo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dal giudice: la contrattazione collettiva ha il compito, pertanto, di definire per ogni settore e per ogni contratto, la retribuzione minima di riferimento in base ai livelli di professionalità.
Come noto, nessun problema si pone nel caso in cui le parti vogliano stabilire una retribuzione più elevata rispetto a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, potendo aumentare la retribuzione in qualsiasi momento del rapporto di lavoro.
Diverso è, invece, il caso in cui il datore di lavoro voglia diminuire la retribuzione concordata con il dipendente in sede di assunzione o successivamente determinata.
Può il datore di lavoro ridurre la retribuzione del proprio dipendente in caso di cambio di mansioni? Anche se si tratta di demansionamento?
Cosa succedere se la riduzione riguarda i benefit affidati al lavoratore e quindi la retribuzione in natura?
PRINCIPIO DI IRRIDUCIBILITÀ DELLA RETRIBUZIONE E LIMITI
La normativa (sia quella costituzionale ex art 36, sia l’art. 2103 c.c.) ha stabilito, in linea generale, il principio di irriducibilità della retribuzione.
Tale principio si concretizza in due differenti aspetti:
- Da un lato, vige il divieto per il datore di lavoro di ridurre unilateralmente la retribuzione del dipendente (seppur con alcune, fondamentali precisazioni e limitazioni di cui si dirà nel prosieguo);
- Dall’altro vi è la possibilità di pattuire con il lavoratore una diminuzione concordata della retribuzione, mediante la stipulazione di un accordo o in “sede protetta” o davanti ad una commissione di certificazione, purché sussistano alcuni requisiti espressamente indicati dalla legge.
È palese come, in caso di accordo con il lavoratore, la riduzione del trattamento economico sia una conseguenza legittima e oggetto della pattuizione individuale. In questo caso, seppure la normativa non lo preveda espressamente, è preferibile un accordo in sede protetta (ex. art. 411/410 c.p.c.) onde evitare un contenzioso con il lavoratore in merito alla effettiva volontà delle parti (ergo del lavoratore) ovvero alla natura degli emolumenti oggetto di riduzione.
Ben più complicato il caso in cui sia il datore di lavoro a volere apportare delle modifiche all’organizzazione del lavoro o ai compiti affidati al lavoratore che si ripercuotono sul trattamento economico.
MODIFICA DELLE MANSIONI E RETRIBUZIONE
Modifica unilaterale della mansione
Il rinnovato testo dell’art. 2103 c.c. prevede la possibilità di adibire il dipendente a mansioni inferiori, purché tali mansioni rientrino nella medesima categoria legale (operaio, impiegato, quadro o dirigente) e purché ciò avvenga in uno dei seguenti casi:
- modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore;
- nelle ulteriori ipotesi previste dai contratti collettivi (anche aziendali).
In caso di adibizione a mansioni inferiori, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa, richiamando quanto già affermato dalla giurisprudenza consolidata.
Risulta fondamentale in questa fase comprendere cosa si intenda per retribuzione e capire quindi se il principio di irriducibilità si applichi all’intera retribuzione o limitatamente ad alcune voci.
Come noto, la retribuzione si compone di diversi elementi: accanto ad alcuni elementi “base” determinati dalla contrattazione o dalla legge (minimo contrattuale, contingenza, E.D.R., scatti di anzianità, ecc.), vi sono alcune voci che costituiscono delle indennità specificamente collegate ad una mansione (es. indennità professionali, di cassa, reperibilità, ecc.) o legate a particolari modalità di svolgimento della prestazione quale compensazione di un particolare disagio (si pensi all’indennità di turno, di rischio, di trasferta, ecc.).
Da sempre la giurisprudenza ritiene che, a seguito di un mutamento legittimo di mansioni, la garanzia di irriducibilità della retribuzione si debba estendere esclusivamente alla retribuzione connessa alle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione compensativa di particolari e gravosi modi di svolgimento del lavoro.
Pertanto, tali voci possono essere soppresse con il venire meno di quelle particolari modalità.
La Cassazione, quindi, rilevando che alcuni compensi sono connessi alla particolare modalità di svolgimento della prestazione, ha in più occasioni statuito che tali compensi non possano rilevare ai fini della verifica di un demansionamento e che, quindi, possano legittimamente essere esclusi dalla retribuzione da utilizzare quale parametro per l’asserito demansionamento.
In sintesi si può sostenere che:
- in via generale vige il principio di irriducibilità della retribuzione che implica che la retribuzione concordata in sede di assunzione non possa essere ridotta;
- tuttavia, tale garanzia di irriducibilità non deve essere applicata ai trattamenti retributivi erogati per particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa (es. indennità di cassa, maneggio denaro, reperibilità, turno, ecc.) qualora la nuova mansione non determini tale responsabilità e/o modalità di svolgimento della prestazione;
- in considerazione di quanto sopra, ove a seguito di una modifica delle mansioni, vengano meno le situazioni che hanno determinato la corresponsione di particolari indennità, tali voci possono essere legittimamente soppresse.
È il caso di evidenziare come, qualora la modifica della mansione non possa rientrare nel concetto di demansionamento, mantenendo il lavoratore il medesimo livello di inquadramento ma con un ruolo in azienda diverso, è chiaro come le indennità o emolumenti collegati alla precedente mansione possano essere soppressi, così come avviene in caso di demansionamento.
Mansioni inferiori e accordi individuali
Nella formulazione previgente dell’art. 2103 c.c., la legge non prevedeva espressamente la possibilità di demansionare e di ridurre la retribuzione. Le uniche riduzioni di retribuzione possibili erano quelle, accettate anche dalla giurisprudenza, in cui vi fosse un accordo tra lavoratore e datore con il preciso scopo di salvaguardare il posto di lavoro.
La nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., seguendo i principi giurisprudenziali consolidatisi, consente espressamente una deroga al principio di irriducibilità della retribuzione, prevedendo che le parti possano concordare modifiche anche peggiorative delle mansioni e dell’inquadramento, nonché della retribuzione, purché tali accordi siano stipulati in sede protetta e purché avvengano nell’interesse del lavoratore:
- alla conservazione dell’occupazione;
- all’acquisizione di una diversa professionalità;
- al miglioramento delle condizioni di vita.
Occorre precisare, quindi, che si tratta di ipotesi fortemente circoscritte che, per essere legittime, devono necessariamente soddisfare due requisiti:
- deve sussistere l’interesse del lavoratore (e non del datore di lavoro), il quale può farsi assistere da un rappresentante d sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro;
- l’accordo deve essere stipulati in sede protetta (ex. art. 411, 410 c.p.c.).
Mansioni superiori
Sembrerà strano parlare di riduzione della retribuzione e mansioni superiori, ma il caso non è poco frequente. Pensiamo all’ottimo operaio veneto, sempre dedito al lavoro, mai un’assenza e sempre presente al lavoro anche fuori orario, con conseguente diritto allo straordinario. Il datore di lavoro, in un’ottica di sviluppo del personale e di miglioramento organizzativo, decide di affidargli il ruolo di caporeparto.
Secondo quanto previsto dall’art. 2103 c.c. nel corso dell’assegnazione temporanea o definitiva a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento economico e normativo corrispondente al relativo superiore livello. Pertanto il lavoratore consegue il diritto al livello di inquadramento superiore ed al relativo trattamento economico e normativo accessorio.
Tornando al nostro esempio, qualora l’attribuzione alla funzione di caporeparto determinasse, per disposizione del contratto collettivo, il mancato diritto al riconoscimento del trattamento dello straordinario, il lavoratore, legittimamente, si vedrebbe riconosciuto il trattamento economico tabellare previsto per il suo livello superiore ma andrebbe a perdere eventuali emolumenti collegati alla precedente prestazione lavorativa (es. indennità di turno, lavoro straordinario ecc.).
Per tale motivo, il novellato art. 2103 c.c. prevede che “Nel caso di assegnazione a mansioni superiori l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore”.
Quindi anche nel caso di assegnazione a mansioni superiori, spetta sempre al lavoratore l’ultima parola. Un suo eventuale rifiuto determinerebbe l’impossibilità di modifica della mansione affidata con cristallizzazione del trattamento economico in atto.
MODIFICA DEI BENEFIT AFFIDATI. QUALI EFFETTI?
Ai sensi dell’art. 2099 c.c. il lavoratore può essere retribuito in tutto o in parte anche con prestazioni in natura. La retribuzione in natura può consistere nell’erogazione e nell’utilizzo di beni o servizi di una determinata utilità a favore del lavoratore. Tali beni o servizi sono normalmente definiti “Fringe Benefit” (es: auto aziendale, alloggio, ecc.).
Chiaramente, il principio di irriducibilità della retribuzione si applica sia alla retribuzione monetaria che a quella in natura: alla stregua della retribuzione monetaria, che, come sopra visto, può essere ridotta in alcuni casi specifici (quali il mutamento di mansione o la previsione di un accordo ex art. 2103 c.c.), anche quella in natura può essere ridotta: ciò significa, quindi, che il benefit può essere revocato ove vi sia un cambio di mansioni che determini il venir meno delle circostanze che hanno determinato il diritto alla corresponsione del benefit.
Anzi, la Cassazione n. 11538/2019, ha ritenuto legittima la revoca della disponibilità̀ dell’autovettura aziendale al lavoratore, il quale ha sottoscritto per accettazione il regolamento secondo cui l’uso è a interesse esclusivo della società̀ e revocabile senza preavviso.
Qualora, invece, l’assegnazione dell’auto aziendale sia chiaramente ad uso promiscuo, la giurisprudenza ormai consolidata ha sentenziato il diritto dei lavoratori a mantenere il livello retributivo conseguito attraverso il beneficio dell’uso dell’auto; in assenza di criteri certi, la determinazione del controvalore in denaro dell’utilizzo dell’auto si determina in conformità̀ con la previsione dell’art. 51 TUIR (c.d. valore fringe ACI, di importo corrispondente a 15.000 km moltiplicato per il valore €/km Aci il tutti ridotto al 30%).
Tale principio vale certamente in caso di revoca unilaterale e immotivata, mentre nei casi legittimi, si ritiene che il lavoratore non abbia diritto ad alcun trattamento economico sostitutivo.
LA RIDUZIONE DELLA RETRIBUZIONE IN SINTESI
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