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Una recente sentenza del Tribunale di Venezia offre l’occasione per ragionare sugli obblighi di sicurezza anti-Covid, sulla vigilanza del datore di lavoro ed i relativi poteri sanzionatori.

Utilizzo obbligatorio della mascherina sul luogo di lavoro

Molto articolata la vicenda alla base della decisione. Nel caso considerato il lavoratore, che svolgeva altresì funzioni di RLS aziendale, aveva posto in essere molteplici condotte volte a contestare l’utilizzo della mascherina sul luogo di lavoro. Dapprima inviava una pec alla Società, in cui esprimeva la propria contrarietà all’obbligo di utilizzo e intimava di valutare molto bene l’irrogazione di eventuali sanzioni disciplinari ai lavoratori dissenzienti. La pec in questione veniva successivamente appesa dal lavoratore alla bacheca aziendale. Quindi, il dipendente si presentava ad una riunione aziendale rifiutandosi di indossare la mascherina chirurgica fornita dall’azienda, nonostante l’invito rivoltogli dal RSPP.

La Società, a fronte di tali condotte, irrogava la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un numero di tre giornate. Sanzione che veniva ritenuta legittima dal Giudice adito perché il datore di lavoro, in quanto obbligato a tutelare la salute dei lavoratori, è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie e opportune per prevenire eventi dannosi.  Secondo il Giudicante, la sussistenza di tale obbligo è indicata sia dal d.l. n. 18/2020, che considera infortuni sul lavoro i casi accertati di Coronavirus contratto sul luogo di lavoro, sia dal Protocollo condiviso di regolamentazione del 14 marzo 2020. Specificamente, la Società aveva attuato il Protocollo siglandone uno interno in cui veniva espressamente disciplinato l’utilizzo delle mascherine: tale Protocollo era stato approvato anche dai Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Secondo il Giudice, l’adozione del Protocollo aziendale e la vigilanza sulla sua implementazione rispondono quindi al dovere datoriale di tutelare i dipendenti.

Di conseguenza, l’utilizzo dei dispositivi di prevenzione è obbligatorio e il datore di lavoro deve sanzionare disciplinarmente chi vi si sottragga. Il principio, si badi bene, non è nuovo, essendo inferibile dal d. lgs. n. 81/2008. Alla sentenza innegabilmente va il merito di aver dettato un po’ di chiarezza tra le confuse e contrapposte opinioni sorte con riferimento alla normativa emergenziale. La pronuncia, peraltro, si inserisce in un filone oramai univoco: sulla stessa scia, il Tribunale di Ancona ha rigettato la domanda avanzata da alcuni dipendenti di un’azienda di trasporti, volta ad ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare comminata dalla datrice poiché aveva accertato il mancato utilizzo della mascherina chirurgica durante l’espletamento del turno di servizio.

Come, nella prospettiva opposta, è stato ritenuto illegittimo il licenziamento di un dipendente che aveva rifiutato di servire un cliente senza mascherina, poiché il lavoratore si era limitato ad esercitare il proprio diritto, costituzionalmente garantito, a svolgere la propria prestazione in condizioni di sicurezza.

Rischio covid-19 e responsabilità penale del datore di lavoro

La vicenda in esame induce ad alcune riflessioni più ampie sugli obblighi di vigilanza del datore di lavoro. A fronte di comportamenti dei lavoratori che non siano conformi alla disciplina prevenzionistica, l’esercizio del potere sanzionatorio appare infatti non discrezionale, ma obbligatorio. Questo perché nel caso di contagio sul luogo di lavoro  – o, ancora peggio, qualora insorga un vero e proprio focolaio – , il datore rischia di essere esposto a profili di responsabilità sia civile che penale, ove venga accertato che l’evento morboso sia dipeso da una negligente sorveglianza.

Ciò si evince da una recente pronuncia della Corte di cassazione, sez. penale IV, n. 20416 del 24 maggio 2021.

La vicenda riguarda una casa di riposo sottoposta a sequestro preventivo in seguito allo scoppio di un focolaio Covid-19. Motivo del sequestro era, tra l’altro, l’omessa integrazione del DVR con riferimento alla disciplina emergenziale. Il provvedimento veniva successivamente annullato, con ordinanza poi confermata dalla Cassazione. Secondo la Suprema Corte, l’annullamento disposto era legittimo poiché non era possibile ravvisare un nesso di causalità tra il mancato aggiornamento del DVR e la diffusione del virus all’interno della casa di riposo. Inoltre  – prosegue la pronuncia – quand’anche fosse stato integrato il DVR e valutato il rischio biologico, ai sensi dell’art. 27, d. lgs. n. 81/2008, la propagazione del virus avrebbe potuto comunque avvenire per fattori causali alternativi (come la mancata osservanza delle prescrizioni impartite nel DPCM per le case di riposo quali quella di indossare le mascherine protettive, del distanziamento o dell’isolamento dei pazienti già affetti da Covid, ovvero a causa del ritardo negli esiti del tampone).

Trasferendo i principi enunciati su un piano più generale, se ne ricava a contrario che la mancata sorveglianza sul rispetto delle norme prevenzionistiche potrebbe integrare fatto illecito a cui ricondurre eventuali contagi, determinando la responsabilità penale del datore di lavoro.

I reati ascrivibili potrebbero essere quello di lesioni, previsto dall’art. 590 c.p., l’omicidio colposo ex art. 589 c.p., ove il contagio abbia determinato la morte, oppure l’epidemia ai sensi dell’art. 438 c.p.

Ricordiamo, peraltro, che se l’Inail ha confermato l’indennizzabilità del contagio da Covid quale infortunio sul lavoro, nelle diverse circolari in materia non sono stati esclusi eventuali profili di responsabilità del datore di lavoro, in deroga alle prescrizioni del Testo Unico.

O meglio, viene precisato che «il riconoscimento (…) del diritto alle prestazioni da parte dell’Istituto non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del Pubblico Ministero. Così come neanche in sede civile l’ammissione a tutela assicurativa di un evento di contagio potrebbe rilevare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l’accertamento della colpa di quest’ultimo nella determinazione dell’evento». Quindi, l’indennizzabilità dell’infortunio non implica una responsabilità oggettiva del datore di lavoro, ma nemmeno la esclude. Infatti, «la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n.33» (circ. Inail n. 22/2020).

È bene precisare, in aggiunta, che eventuali responsabilità datoriali incidono sulla stessa operatività della tutela Inail. L’art. 10, c. 1, del T.U. n. 1124/1965 esclude l’esonero dalla responsabilità civile a carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato. Inoltre, ricorre la responsabilità civile del datore di lavoro anche se l’infortunio è avvenuto a causa del comportamento negligente di altri dipendenti. Con un paradosso. Se il datore non vigila sull’ottemperanza alle norme di sicurezza, rischia di soggiacere ad un’azione di regresso dell’Inail.

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