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Avete presente quando il cameriere, notte fonda, aspetta l’ultimo commensale della serata intento a ritardare l’inevitabile ritorno a casa?
Sempre in piedi come se dovesse dissimulare la fatica del giorno, l’esperto cameriere comincia a spegnere le luci sugli altri tavoli oramai risistemati e, chissà perché, arriva imperterrito quel colpo di tosse quasi onomatopeico a simboleggiare che, suvvia, sempre bello celebrare l’ospite ma bisogna anche tornare a casa.
Ecco, se ci pensate è un po’ quello che sta succedendo al c.d. JOBS ACT dei licenziamenti, d.lgs. n°23/2015, che, bisogna dirlo, non piace particolarmente alla Corte Costituzionale (per non parlare del sindacato).
Le sentenze
Il giudice delle leggi, con le sentenze che andremo a vedere, non ci è andato leggero.
Partendo dalla sentenza n°194/2018 che, per prima, ha nei fatti dissacrato la ratio del disposto normativo (nonostante un timido tentativo del legislatore del tempo che, con il c.d. decreto dignità – DL n°87/2018, aveva aumentato l’indennità risarcitoria legata automaticamente all’anzianità di modo da ritenerla maggiormente “robusta”) ritenendo non costituzionale una struttura risarcimentale, nel caso di illegittimità del licenziamento, che non consentisse al Giudice di valutare la reale situazione e/o la proporzionalità del fatto, l’anno 2024 ha visto n°5 provvedimenti della Corte Costituzionale in relazione al tutele crescenti.
Volendoli citare brevemente osserviamo.
Prima sentenza (n°7 del 22 gennaio 2024). Si è ritenuto legittimo il diverso regime di tutela nei licenziamenti collettivi illegittimi per riduzione di personale per chi è assunto prima o dopo il 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore della norma);
Seconda sentenza (n°22 del 22 febbraio 2024). Illegittimità costituzionale con “cancellazione” dell’avverbio “espressamente” dal testo dell’art 2 del d.lgs. n°23/2015, che, limitandosi alla nullità testuale della legge, non considerava le nullità virtuali (ad esempio il periodo di comporto o al licenziamento di chi richiede il diritto di informazione ex d.lgs. n°104/2022), per eccesso di legge delega;
Terza sentenza (n°44 del 19 marzo 2024). La Corte Costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale (eccepita dal Tribunale di Lecce nel 2023) di cui all’art. 1, co 3, d.lgs. n°23/2015 a merito della quale il Legislatore aveva stabilito che ai dipendenti di una piccola impresa, già in forza prima del 7 marzo 2015, dovessero essere applicate, in caso di superamento della soglia dei 15 dipendenti dopo il marzo 2015 le “tutele crescenti” e non quelle reintegratorie previste dalla Riforma Fornero.
Quarta sentenza (n°128 del 16 luglio 2024). Illegittimità costituzionale dell’art 3, co 2, del d.lgs. n°23/2015 nella parte in cui non prevede che la reintegrazione si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore. Traducendo: se la riorganizzazione sulla cui base di fonda il recesso è fittizia o irreale, reintegra. Di contro, la violazione dell’obbligo di repêchage non comporta autonomamente la reintegrazione (circostanza peraltro difforme da alcune sentenze di cassazione sul punto);
Quinta sentenza (n°129 del 16 luglio 2024). Interpretazione costituzionalmente orientata del già malconcio d.lgs. n°23/2015. La Corte Costituzionale ha stabilito che la mancata previsione della reintegra, quando il fatto contestato è identificato dal contratto collettivo come punibile con sanzione conservativa, viola il riconoscimento costituzionale dell’autonomia collettiva (articolo 39). Sintetizzando: se il contratto collettivo dispone, per quella fattispecie, una sanzione conservativa, la violazione di tale determinazione darà luogo alla reintegra (altra vicenda che vede la giurisprudenza di merito in senso contrario).
Le sentenze di cui sopra bastano a far capire come sia ora di rimboccarsi le maniche e modificare il tenore normativo della legge in trattazione.
Il tutto senza considerare le pronunce di inammissibilità della corte delle leggi che, in ogni caso, più di qualche input al legislatore lo hanno dato. Basti pensare alla pronuncia n°183/2022 nella quale la Consulta, pur dichiarando inammissibile la differenziazione tra aziende con meno o più di 15 lavoratori (e le conseguenze economico normative riferite al licenziamento in tali realtà), ha esortato il parlamento ad intervenire riferendo che “il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a ben vedere, non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete”.
Il Referendum della CGIL
Se non fosse abbastanza, il parlamento dovrà fare i conti anche con i referendum della CGIL la quale, raccolte le firme necessarie, pone due di quattro quesiti referendari proprio sulla tematica dei licenziamenti. Con un po’ di sano populismo li chiameremo:
Quesito 1: Lavoro tutelato.
Il testo è semplice “Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?»
Sia chiaro. se anche fosse, si applicherebbe la Legge n°92/2012 in modifica all’art. 18 L. n°300/1970, a merito della quale la reintegra non assumerebbe di certo il ruolo principale delle sanzioni in caso di illegittimità del recesso;
Quesito 2. Lavoro Dignitoso.
Il testo espone “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”
In sostanza, ci si pone l’obbiettivo di abrogare le tutele economiche deboli per le aziende piccole (sotto i 15 dipendenti per unità produttiva o sotto i 60 dipendenti).
Ora. Deve essere chiara una cosa.
Il motivo per il quale la CGIL ha azionato lo strumento referendario non risiede solo, forse, negli obbiettivi che i quesiti si pongono.
In effetti gli stessi sono francamente poco condivisibili sia in tema di diritto che in tema di opportunità e/o valutazioni e consegnano una visione del mondo del lavoro e dell’impresa miope, se non anacronistica, laddove la reintegra a discapito delle aziende appare come l’unica soluzione possibile.
Il tutto in un contesto economico sui ranghi di partenza per l’implementazione delle vere riforme digitali e di revisione dei processi produttivi e senza considerare il culturale “favor” che la magistratura riserva al lavoratore (non sempre soggetto da tutelare).
Deve però comprendersi come lo stesso referendum in sé sia una “spina” nel fianco del legislatore.
Questo perché:
- Lo strumento referendario è costoso.
Di per sé pochissimi referendum hanno raggiunto il quorum necessario per poter validarne il percorso costituzionale. Pensiamo al precedente del 2017, sempre della CGIL, laddove alla raccolta delle firme per arrivare all’abrogazione dei c.c. “voucher selvaggi” ha scatenato la reazioni quasi immediata del governo che, a colpi di DL, ne ha abrogato la norma e rivisto il contenuto (per fortuna depotenziandolo);
- Per quanto strumento sopraffino e figlio delle democrazie avanzate, i referendum proposti non sono la soluzione al problema che deve essere affrontato dalla responsabilità del parlamento che deve legiferare, non creando buchi ma consegnando disposti normativi applicabili.
Certo, normare le conseguenze dell’illegittimo licenziamento non è cosa semplice (tecnicamente e politicamente).
In ogni caso il “tutele crescenti” qualche pregio lo aveva.
Il primo tra essi era la ricerca di una certezza della pena (se dissentite in tal senso significa che non avete mai spiegato ad una azienda straniera le conseguenze di un licenziamento nel suolo italiano) rappresentato dal suo automatismo economico. Peraltro primo baluardo ad essere censurato dalla Consulta.
Vediamo cosa succederà in futuro. Volenti o meno ora tocca al Parlamento / Governo. Speriamo bene.