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Come affrontato in diverse occasioni dalla Corte di Cassazione, assume rilevanza penale la condotta del datore di lavoro che ometta di corrispondere al lavoratore assegni o indennità (quali malattia, maternità, assegni per il nucleo familiare, permessi per la legge 104/1992, ecc.) portando tali valori a conguaglio nei modelli dichiarativi mensili. Contrariamente a quanto possa sembrare, tale condotta può verificarsi più frequentemente di quanto non si possa immaginare. Andiamo nel prosieguo a ricapitolare tale fattispecie.

La fattispecie

Giova innanzitutto ricordare che, in via generale, le indennità Inps sono corrisposte dal datore di lavoro (salvo i casi di erogazione diretta da parte dell’istituto) direttamente al lavoratore e sono riportate e comunicate all’istituto tramite le procedure di elaborazione dei cedolini paga.

In particolare, ai sensi dell’art. 1, c. 1 del D.L. 633/1979, le prestazioni Inps di malattia, maternità ecc. devono essere corrisposte – anzi, anticipate – ai lavoratori, che ne abbiano diritto, direttamente dal datore di lavoro all’atto di corresponsione della retribuzione.

L’azienda è poi tenuta a comunicare mediante le denunce contributive mensili i dati relativi alle prestazioni erogate nel cedolino paga e può recuperare gli importi anticipati con un particolare meccanismo che prevede il c.d. “conguaglio” degli stessi nelle denunce contributive correnti con i debiti contributivi correnti.

A titolo esemplificativo, nel mese di ottobre 2021, l’azienda X corrisponde a titolo di malattia al lavoratore Sig. Bianchi un’indennità di 700,00 euro al momento di erogazione della retribuzione.  L’azienda – avendo anche altri dipendenti per i quali è tenuta a versare contribuzione previdenziale – avrebbe un debito contributivo complessivo nei confronti dell’Inps di 2500,00 euro. In tal caso, il datore di lavoro potrà recuperare il valore dell’indennità di malattia anticipata, andando a dichiarare sia i debiti che i crediti mensili, conguagliando gli stessi, versando, conseguentemente, 1.800 euro di debito finale mensile.

Nel caso in cui l’azienda, anche a causa di una difficoltà economica o finanziaria, non paghi le retribuzioni dei dipendenti – omettendo, quindi, in caso di malattia, maternità ecc. il pagamento delle prestazioni stesse – è bene che presti estrema attenzione alle modalità di compilazione delle denunce contributive, anche laddove tali adempimenti, come spesso accade, siano demandati a soggetti terzi o professionisti.

In particolare, nel caso di omesso pagamento delle prestazioni previdenziali, qualora le stesse vengano esposte ugualmente nelle denunce contributive mensili inviate all’Inps (andando, concretamente, ad abbassare il debito contributivo complessivo aziendale), si configura un indebito conguaglio delle prestazioni previdenziali che garantisce all’azienda un arricchimento che può dare seguito a serie conseguenze, anche sul piano penale.

Considerato il fatto che i reati penali assumono natura personale, per il datore di lavoro potrebbe non risultare sufficiente sostenere di aver demandato gli adempimenti contributivi mensili e l’elaborazione dei cedolini paghe ad un professionista terzo.

A questo punto, risulta fondamentale capire cosa rischia il datore di lavoro dal punto di vista penale.

L’evoluzione della giurisprudenza sulla materia

Tradizionalmente, la giurisprudenza classificava l’indebito conguaglio di prestazioni previdenziali come:

  • truffa (ex art. 640 bisp);
  • o, altresì, come appropriazione indebita (ex art. 646 c.p.).

Nel primo caso, (vedasi Cass. Penale 21.12.2010 n. 2184), la Corte ha ritenuto che commette il reato di tentata truffa aggravata nei confronti dell’INPS il datore di lavoro che abbia reso dichiarazioni mensili contenenti fraudolente richieste di conguaglio per l’intero importo delle indennità di malattia dovute ad un lavoratore ma allo stesso corrisposte solo in parte. 

Tale orientamento giurisprudenziale, da sempre considerato tradizionale, considera il fatto che il datore di lavoro induca in errore l’Inps sul credito contributivo, realizzando un profitto ingiusto.

In tale situazione, assumono rilevanza, oltre alle false dichiarazioni, anche gli artifici e i raggiri di altra natura posti in essere dal datore di lavoro per configurare il reato di truffa.

Nel secondo caso, l’indebito conguaglio è stato classificato come appropriazione indebita ex art. 646 c.p.

Rispetto al reato di truffa, in tale ipotesi, la Corte (vedasi Cassazione Penale, 14.10.2015 n. 41357) rileva l’assenza di un danno nei confronti dell’ente previdenziale, ponendo l’accento invece sul lavoratore, in quanto soggetto che subisce il danno per la mancata percezione delle somme spettanti.

L’attuale assetto giurisprudenziale

La giurisprudenza più recente sembra classificare la condotta del datore di lavoro come integrante gli estremi per il reato ex art. 316 ter c.p., ovvero il reato di indebita percezione di erogazione ai danni dello Stato.

Tale articolo prevede la reclusione da sei mesi a tre anni per chiunque “(…) mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato (…).

Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a euro 3.999,96 si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da euro 5.164 a euro 25.822. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito”.

L’ipotesi di indebito conguaglio si concretizza laddove il datore di lavoro versi i contributi in misura inferiore rispetto a quanto ordinariamente dovuto.

La Corte di Cassazione (sezione Penale del 19.02.2019 numero 7594) ha ulteriormente confermato che il delitto di cui all’art. 316 ter c.p. “prescinde dall’esistenza di artifici e raggiri, sia dalla induzione in errore, sia dall’esistenza di un danno patrimoniale patito dalla persona offesa, elementi tutti che caratterizzano il reato di truffa”. Per la Cassazione ciò che è richiesto è l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti situazioni non veritiere da cui derivi il conseguimento indebito di erogazioni da parte dello Stato o di altri enti pubblici, da cui derivi, cioè, il conseguimento di erogazioni cui non si ha diritto. Il reato si consuma nel momento in cui il datore di lavoro provvede a versare all’INPS i contributi ridotti per effetto del conguaglio cui non aveva diritto.

Sul fronte della responsabilità di tale condotta, giova richiamare la sentenza di Cassazione (sezione Penale, 13.05.2020 numero 14779). In tale ipotesi, l’Amministratore della Società X aveva indicato nelle denunce contributive somme riguardanti assegni per il nucleo familiare, congedi ex l. 104/1992 e cassa integrazione ordinaria, senza in realtà corrisponderle ai lavoratori aventi diritto.

In tale sede, l’Amministratore ricorreva per violazione dell’art. 316 ter in quanto lo stesso, pur al corrente del meccanismo della compensazione, dichiarava di non avere conoscenze delle singole, specifiche operazioni realizzate dai soggetti deputati all’elaborazione dei cedolini e all’invio delle denunce contributive mensili. In tal caso, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso in quanto “il ricorrente era a conoscenza del meccanismo della compensazione e della carenza di liquidità della società da lui amministrata e le condotte contestate sono a lui personalmente addebitabili, trattandosi di scelte non attribuibili agli impiegati o ai consulenti della società che non avevano alcun interesse a presentare all’Inps dichiarazioni non vere (…)”.

Le possibili soluzioni in pratica

Considerato quanto sopra riportato, risulterebbe opportuno, nonché doveroso, per i datori di lavoro, in caso di difficoltà finanziarie tali da non consentire il pagamento delle retribuzioni, far presente tale tematica al soggetto o professionista che si dovrà occupare dell’invio delle denunce contributive al fine di non incorrere nel reato penale di cui all’art. 316 ter o in ulteriori reati, quali quelli di truffa o appropriazione indebita. Infatti, seppure tali adempimenti siano nella realtà aziendale (indipendentemente dalla grandezza e composizione interna della stessa) operativamente riconducibili ad un professionista esterno, questo in termini giudiziali non basterà ad escludere la responsabilità oggettiva del legale rappresentante della società.

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