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Ristrutturazioni, contenimento dei costi, necessità riorganizzative. Quante volte questi termini sono utilizzati nell’ambito di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo? Sia chiaro: non si può teoricamente prescindere dai concetti sopra evidenziati ma la sentenza del Tribunale di Treviso del 11 ottobre 2023 impone la necessaria verifica di quanto contenuto nella lettera di recesso.

Attenzione: per quanto l’articolo 41 della Carta Costituzionale non consenta un giudicato della scelta economico imprenditoriale, la stessa però deve sussistere formalmente, con piena prova sia della eventuale “riorganizzazione” paventata che del nesso causale tra tale scelta e l’impatto con il malcapitato lavoratore/trice.

Cosa è successo. Il fatto in esame

Il Tribunale di Treviso, per mezzo della sentenza n. 359 dell’11 ottobre 2023, ha ritenuto illegittimo il licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo nei confronti di una lavoratrice della Società P. ritenendo insussistente il nesso di causalità tra le motivazioni addotte dalla Società per giustificare la riorganizzazione aziendale e il licenziamento individuale intimato.

La dipendente S., assunta presso la Società P dal 2019 con mansioni di “executive assistant”, diveniva destinataria di un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo (di seguito anche “gmo”) in relazione ad un “forte rallentamento delle vendite” e conseguente necessità da parte della Società di “investire negli ambiti ritenuti più strategici”, riducendo così i costi non ritenuti strettamente necessari a tale fine.

Tuttavia, come rilevato dal Tribunale, tale licenziamento non poteva nei fatti ritenersi causalmente connesso e funzionale al raggiungimento dell’obiettivo dichiarato.

In concreto, dalla lettura dei bilanci della Società P. risultava un fatturato in ripresa dopo le difficoltà effettivamente affrontate nel periodo pandemico e, con riferimento alla posizione ricoperta dalla lavoratrice S., veniva altresì rilevato un potenziamento nel settore di competenza della medesima perseguito, tra le altre, anche attraverso l’inserimento di una risorsa con mansioni analoghe ed affini rispetto a quelle della dipendente licenziata.

Per tale ragione, il Tribunale di competenza ha rilevato l’insussistenza del nesso causale tra il recesso intimato dalla Società nei confronti della lavoratrice P. e le motivazioni addotte nella lettera di licenziamento.

Sul punto, vale la pena interrogarsi in merito a quali siano i confini e le possibili conseguenze che un datore di lavoro, posto il complesso bilanciamento la discrezionalità imprenditoriale ed eventuali licenziamenti, può incontrare con riferimento all’ambito specifico del “giustificato motivo oggettivo” o “gmo”.

Il giustificato motivo oggettivo nell’ordinamento italiano

Una prima definizione del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo è contenuta nell’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 il quale identifica tale fattispecie come il recesso unilaterale esercitato per “ragioni inerenti alla produttività, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

Si evince dunque come tale casistica escluda qualsivoglia giudizio “soggettivo” con riferimento alla persona del lavoratore destinatario di tale provvedimento (con esclusione del licenziamento intimato per sopravvenuta infermità per ragioni indipendenti al lavoro, che merita una lettura separata rispetto alla più generale individuazione di cui all’art. 3 ed è qui da ritenersi escluso).

Per tale ragione, possiamo ritenere che le tre condizioni fondamentali per ritenere legittimo un “gmo” possano essere sintetizzate nella presenza di un riassetto organizzativo effettivo e fondato su circostanze realmente esistenti al momento del recesso, nella sussistenza di un nesso causale tra le motivazioni oggetto del provvedimento e il licenziamento intimato e, infine, nella correttezza e buona fede del datore di lavoro con riferimento ai criteri di scelta utilizzati per individuare il destinatario di tale provvedimento.

Nel caso in oggetto non si contesta dunque la sussunzione operata dall’azienda tra la fattispecie del “gmo” e la soppressione della posizione lavorativa della lavoratrice P., ritenendosi infatti pienamente compatibili, quanto più la correlazione funzionale tra la scelta imprenditoriale, peraltro ritenuta parzialmente non veritiera, e il licenziamento intimato.

D’altro canto, la volontà del datore di lavoro di sopprimere parte delle attività svolte dall’azienda è da ritenersi valida indipendentemente dall’obiettivo perseguito. Infatti, con specifico riferimento alla scelta aziendale di esternalizzare una o più attività, la giurisprudenza è uniforme nell’affermare che “l’effettività della scelta imprenditoriale” sia di per sé “sufficiente per la legittimità del recesso” e che dunque una contrazione dei ricavi o un andamento economico negativo, come riportato nella missiva del caso in oggetto, non “costituiscano un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare”.

Ai fini della legittimità del provvedimento è infatti irrilevante l’obiettivo che il datore di lavoro intende perseguire attraverso tale scelta, come peraltro costituzionalmente riconosciuto dall’art. 41 ma, una volta prodotte dette motivazioni, queste devono ritenersi “causalmente” connesse e rilevanti ai fini del recesso operato.

A titolo esemplificativo e non esaustivo, infatti, la Società può decidere di procedere ad un riassetto organizzativo interno per ottenere un maggiore efficientamento, un aumento della produttività, una riduzione dei costi o per fronteggiare una diminuzione delle vendite e dei ricavi ma, una volta individuate le causali a fondamento del provvedimento di licenziamento, queste devono ritenersi coerenti e funzionali con il recesso operato.

Laddove, infatti, come nel caso in questione, queste risultino pretestuose, il licenziamento sarà considerato ingiustificato per insussistenza del nesso causale o, laddove le ragioni prodotte non corrispondano al vero, per mancanza di veridicità dei fatti.

Quali conseguenze in caso di licenziamento ingiustificato?

Per quanto attiene al caso in oggetto, il Tribunale di Treviso ha ritenuto illegittimo il recesso intimato nei confronti della dipendente P. per “carenza del nesso di causalità tra le ragioni organizzative esposte nella missiva e il licenziamento adottato” riscontrando altresì l’assenza di una valutazione di “proficuo impiego della prestazione lavorativa della ricorrente”.

Per tale ragione, l’autorità giudiziaria ritiene applicabile il disposto di cui al comma 1, art. 3 del Decreto Legislativo n. 23 del 2015 (Jobs Act), poiché “risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.

Per esaustività, si sottolinea come tale fattispecie individui quale conseguenza del gmo “ingiustificato” l’effettiva risoluzione del rapporto di lavoro alla data di licenziamento, escludendo così l’opzione di reintegra attualmente prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori per le violazioni più gravi, ma condannando altresì il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria riparametrata all’anzianità di servizio.

Tale somma, che è da considerarsi esente da un punto di vista contributivo, viene calcolata prendendo a riferimento la retribuzione utile per il calcolo del Trattamento di Fine Rapporto e viene calcolata riconoscendo una misura non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.

La sentenza in esame si risolve dunque nella condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità pari a dieci mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Trattamento di Fine Rapporto, essendo l’anzianità di servizio della lavoratrice P. di soli due anni in favore della Società.

Conclusione

Come noto la discrezionalità datoriale risulta spesso di difficile conciliazione con la materia dei licenziamenti, posta la rigida classificazione delle fattispecie di risoluzione del rapporto di lavoro nell’ordinamento italiano. Per tale ragione, laddove si proceda ad un licenziamento per “gmo” non può ritenersi sufficiente un generico riferimento alla “riorganizzazione” aziendale ma la parte datoriale deve essere in grado di sostenere il nesso di causalità tra le motivazioni addotte e l’attività del destinatario del provvedimento.

Inoltre, vale la pena ribadire che la riorganizzazione interna non deve necessariamente essere determinata da una riduzione del fatturato e delle vendite o, più in generale, da una difficoltà economica dell’azienda, come potrebbe erroneamente pensarsi, ma che la volontà imprenditoriale di un maggiore efficientamento o di una maggiore produttività (in aggiunta alla ben più nota motivazione di riduzione dei costi), “non sono sindacabili nei profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 della Costituzione”.

Tutto questo solo dal punto di vista dell’esistenza della ragione del licenziamento. La sentenza non considera nemmeno gli intricati corollari quali l’obbligo di ripescaggio, ovvero la dimostrazione diabolica che non vi siano mansioni anche non equivalenti atte a salvaguardare i livelli occupazionali.

E questo solo all’interno del recesso. All’esterno dello stesso, un gmo potrebbe vanificare temporalmente la fruizione di agevolazioni contributive come il c.d. under 36.

Le valutazioni da effettuare, dunque, abbondano.

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