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L’indicazione dell’orario di lavoro nei contratti a tempo parziale, e segnatamente a turni, è un aspetto spesso sottovalutato, benché di primaria importanza. La disattenta formulazione della clausola contrattuale può comportare, infatti, non solo una rideterminazione dell’orario, ma anche conseguenze risarcitorie a carico del datore di lavoro. Cerchiamo di fare il punto sulla situazione.

La disciplina in materia e le indicazioni della giurisprudenza

L’art. 5, c. 2, d. lgs. n. 81/2015 dispone che nel contratto di lavoro a tempo parziale debba essere contenuta la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. Nel caso di lavoro a turni, tale indicazione può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite.

Quindi, è possibile richiamare fonti esterne, purché sufficientemente specifiche.

Come deve essere intesa tale specificità? Utili indicazioni in proposito provengono da una recente sentenza del Tribunale di Milano, resa lo scorso 12 ottobre.

Nel caso considerato, il contratto di assunzione (un part time verticale) prevedeva:

  1. il numero complessivo di ore lavorative annuali;
  2. il numero giornaliero di ore lavorative;
  3. un numero prefissato di turni;
  4. il numero di mesi in cui i turni sarebbero stati collocati.

Era stabilito che l’esatta articolazione dei turni sarebbe stata comunicata, per ogni anno, entro la fine dell’anno precedente.

Secondo il Tribunale, simile contratto non conteneva tutti gli elementi prescritti dalla legge, poiché l’indicazione dell’articolazione oraria deve essere specifica, anche con riferimento al giorno e alla settimana, al fine di consentire al lavoratore una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero. Infatti, in giurisprudenza viene sottolineato come il contratto a tempo parziale si fondi su un mutuo consenso circa la collocazione della prestazione lavorativa in un determinato orario. Nell’ipotesi esaminata, mancava alcuna concreta individuazione di uno schema di turno, destinato a ripetersi uguale nel tempo, che ponesse il lavoratore nella condizione di autodeterminarsi adeguatamente.

Analoghi principi si inferiscono dalla sentenza del Trib. Busto Arsizio, 12 febbraio 2018 n. 58. Nella controversia, è stato ritenuto corretto l’operato del datore di lavoro che aveva fatto firmare ai lavoratori una tabella turni, sempre mantenuta invariata successivamente, in cui era predeterminata l’articolazione dell’orario di lavoro. Ad avviso del giudicante, risultava comunque salvaguardata l’esigenza per il singolo lavoratore di organizzare il proprio tempo per svolgere altre attività, dato che i turni erano fissi e ogni quindici giorni veniva comunicato il turno di pertinenza.

Quindi, una volta specificato nel contratto di assunzione che il lavoro è a turni, è sufficiente il rinvio a turni programmati articolati in fasce orarie prestabilite, portate a conoscenza dei lavoratori, purché le stesse rimangano sempre invariate.

Quali conseguenze nel caso di errata stesura della clausola?

Ai sensi dell’art. 10, c. 2, d. lgs. n. 81/2015, l’incompletezza della clausola sulla collocazione dell’orario comporta alcune conseguenze:

  1. la determinazione giudiziale della collocazione temporale della prestazione;
  2. il diritto del lavoratore al risarcimento del danno per eventuali comportamenti abusivi del datore di lavoro;
  3. il diritto del lavoratore al compenso per il lavoro supplementare nel caso di effettiva prestazione oltre l’orario pattuito.

La collocazione temporale dell’orario viene determinata, ope iudicis, tenendo conto delle responsabilità familiari del lavoratore interessato e della sua necessità di integrazione del reddito mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro.

Il risarcimento del danno, invece, viene liquidato secondo una valutazione equitativa del giudice, che assumerà come parametro la retribuzione normale mensile. Si ritiene, tuttavia, che tale risarcimento rivesta in realtà natura sanzionatoria, e perciò prescinda dalla prova del danno procurato, derivando dall’obiettivo disagio subito dal lavoratore per l’unilaterale determinazione da parte del datore di lavoro delle modalità temporali di svolgimento della prestazione.

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