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L’interpello n. 458/2021 proposto all’agenzia delle Entrate evidenzia il trattamento fiscale dei compensi erogati a lavoratori residenti e non residenti in Italia che si trovino eccezionalmente a svolgere in Italia la propria attività lavorativa, in smart-working, a fronte dell’emergenza COVID-19.

In particolare il quesito è stato posto da una Società, parte di un Gruppo societario internazionale, con organico composto da dipendenti che svolgono la propria attività lavorativa all’estero presso le sedi del Gruppo (cd. personale outbound) e da dipendenti, di cittadinanza italiana e non, proveniente dall’estero che svolgono la propria attività lavorativa in Italia (cd. personale inbound). La società precisa che la mobilitazione del personale avviene spesso attraverso il distacco o attraverso contratti di lavoro di diritto estero, con le altre consociate estere del Gruppo.

La richiesta all’Agenzia delle entrate mira a capire come gestire:

  • le situazioni di “immobilismo forzato” – impossibilità del soggetto di partire per la missione all’estero, prevista dagli accordi originari
  • la necessità di rientri improvvisi nei Paesi di origine – impedendo ai dipendenti il ritorno nel luogo in cui normalmente l’attività veniva prestata.

Inoltre esiste una finestra temporale franca? Esistono delle eccezioni per settore? Esiste una regola generale o dobbiamo differenziare gli stati?

Le valutazioni espresse dall’Agenzia delle Entrate in questa sede sono fornite anche alla luce delle interpretazioni OCSE pubblicate ad aprile 2020 e gennaio 2021.

L’emergenza sanitaria COVID-19 ha spesso reso impossibile lo svolgimento della prestazione lavorativa degli expatriates imponendo il ricorso allo smartworking dall’Italia.

Nell’ambito del lavoro estero questo può determinare complicazioni aggiuntive, in quanto il luogo di lavoro definisce molto spesso anche il luogo di imposizione fiscale e contributiva dei redditi prodotti.

In risposta a questo interpello, l’Agenzia delle Entrate ha fornito delle indicazioni abbastanza nette ed in generale un orientamento nazionale tendente ad un’applicazione letterale della normativa internazionale, comunitaria e nazionale.

L’Istituto ribadisce come, valutazioni diverse allo stato, possano essere ammesse unicamente nelle relazioni con Francia, Svizzera e Austria, in applicazione degli accordi amministrativi appositamente stipulati.

Cosa dice l’Agenzia delle entrate: interpello 458/2021

Il quesito posto all’agenzia delle entrate può essere scomposto in tre interessanti passaggi.  

1° quesito

Per i dipendenti che abbiano trascorso in Italia, durante l’anno bisestile 2020, meno di 184 giorni, il compenso relativo ai giorni di lavoro svolti in Italia deve essere considerato come reddito prodotto nel territorio dello Stato da soggetti non residenti? E, in quanto tale, deve essere assoggettato ad imposizione in Italia?

Risposta dell’Agenzia delle Entrate:

L’Istituto ribadisce che secondo la gerarchia delle fonti, nelle relazioni con altri Stati gli accordi sottoscritti tra gli Stati coinvolti prevalgono sul diritto nazionale (che in tema di residenza fiscale sarebbe l’art 23 del TUIR). Nel caso di specie la convenzione sottoscritta tra Italia e la Repubblica Popolare Cinese per evitare la doppia imposizione fiscale prevale sulle disposizioni del Testo Unico delle Imposte sui Redditi.

L’articolo 15 della convenzione succitata, redatta su modello OCSE, prevede che le remunerazioni percepite da un residente di uno Stato contraente per «l’attività dipendente» svolta nell’altro Stato contraente, sono imponibili in entrambi gli Stati.

Pertanto il reddito percepito dai dipendenti della Società istante e residenti in Cina, per l’attività di lavoro svolta in Italia, rileva fiscalmente anche in Italia (in applicazione degli articoli 49 e 51, commi da 1 a 8, del Tuir).

Pertanto l’Agenzia analizzando esclusivamente i fattori concreti ed effettivi che connotano la situazione, senza in alcun modo considerare la causa di forza maggiore derivante dall’emergenza sanitaria, ammette la doppia tassazione del reddito prodotto in Italia da un soggetto che ha svolto in Italia meno di 184 giornate nel 2020. Peraltro l’Istituto rinvia al meccanismo del credito d’imposta (art 23 della convenzione contro la doppia imposizione fiscale) per il recupero dell’importo versato in eccesso.

 

2° Quesito

La permanenza in Italia per più di 184 giorni durante il 2020, dei dipendenti della Società istante, può determinare una modifica nel loro status di residenza fiscale?

Risposta dell’Agenzia:

Ribadendo che le valutazioni circa lo status della residenza non possano essere valutate in sede di interpello, l’Agenzia richiama l’articolo 2 comma 2, del Tuir: «si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile».

In caso di difficoltà nell’individuazione della residenza del soggetto, bisogna far riferimento alle Tie-Breaker Rules (art. 4 par. 2 della convenzione sottoscritta con la Cina) che per dirimere la questione dettano una serie di elementi che devono essere considerati in ordine gerarchico:

  • abitazione permanente
  • centro degli interessi vitali
  • soggiorno abituale
  • nazionalità

In caso di soggetto con abitazione permanente in entrambi gli Stati, l’OCSE pone in particolare l’attenzione verso il criterio del “soggiorno abituale” non semplicemente inteso come il luogo in cui l’individuo ha trascorso più giorni durante il periodo interessato ma verificando in senso ampio anche la frequenza, durata e regolarità dei soggiorni che fanno parte della routine regolare della vita di un individuo.

Il tutto considerato in un periodo di tempo sufficiente evitando l’influenza di situazioni transitorie.

 

3° Quesito

La base imponibile di lavoro dipendente può essere determinata ai sensi dell’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, considerando fittiziamente di fonte estera il reddito derivante da attività svolta in Italia a fronte di cause imputabili all’emergenza sanitaria, con relativa spettanza del credito per le imposte assolte all’estero?

Risposta dell’Agenzia:

L’istituto esclude l’applicabilità delle retribuzioni convenzionali (ex art.  51 co. 8 bis del TUIR) in quanto a tal fine sarebbe necessario lo svolgimento all’estero della prestazione lavorativa per un periodo superiore a 183 giorni nei 12 mesi. Non potendo quindi sorvolare sul fatto che il lavoratore in questione, in assenza di eccezionalità determinate dall’emergenza COVID-19, avrebbe lavorato dall’estero (come richiesto dal comma 8 bis succitato).

Cosa dice l’OCSE?

In merito l’OCSE ha espresso la propria opinione ad aprile 2020 e poi gennaio 2021. In entrambi i casi l’organizzazione interpreta la pandemia come “causa di forza maggiore” e pertanto tende a NON considerare le situazioni dalla stessa determinate.

Nel complesso l’OCSE propone di rilevare esclusivamente i comportamenti che sarebbero stati tenuti in uno scenario di normalità, senza includere le deviazioni dettate dall’emergenza e dai vincoli alla mobilità imposti dai governi.

A parere dell’OCSE, “poiché la crisi COVID-19 è una circostanza eccezionale, nel breve termine le amministrazioni fiscali e le autorità competenti, dovranno considerare, ai fini della valutazione della residenza, un periodo di tempo che non sia influenzato da eventi eccezionali come questo ma che risulti “normale” per la persona”.

Nello specifico, il documento denominato “Updated guidance on tax treaties and the impact of the COVID-19 pandemic”, rilasciato dal Segretariato dell’OCSE il 21 gennaio 2021, affronta l’impatto della pandemia su molteplici aree sollevando in particolare le seguenti questioni:

 

Riflessi sulla costituzione di una stabile organizzazione

A questo proposito l’OCSE ha ribadito che l’eccezionale e temporaneo mutamento nella localizzazione dell’attività del personale dell’impresa (quale, ad esempio, il telelavoro o smartworking) non dovrebbe determinare costituzione di una stabile organizzazione per l’impresa datrice di lavoro. Ad analoga conclusione dovrebbe pervenirsi nell’ipotesi in cui il dipendente concluda contratti per conto dell’impresa dalla propria abitazione.

Diversi Paesi hanno emanato linee guida, in particolare, le Amministrazioni Finanziarie di Australia, Austria, Canada, Germania, Grecia, Irlanda, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Regno Unito: l’HMRC nelle proprie linee guida evidenzia che il trascorrere di un breve periodo non determinerà la costituzione di una stabile organizzazione, considerata comunque la necessità di un certo grado di stabilità per la configurazione di una stabile organizzazione;

Canada: la Revenue Agency ha emanato delle linee guida temporanee sottolineando che non considererà esistente una stabile organizzazione di un’impresa estera solo perché un dipendente di tale impresa è stato costretto dalle disposizioni emergenziali a restare in territorio canadese;

Irlanda: l’Office of the Revenue Commissioners (Revenue) ha emanato linee guida dirette a chiarire che la presenza di un individuo all’interno del territorio irlandese (e viceversa, di un irlandese in un territorio straniero) in ragione delle restrizioni derivanti dall’emergenza COVID-19, non deve assumere rilievo a fini fiscali. In particolare è richiesto che dipendente e impresa documentino fatti e circostanze a dimostrazione che la presenza sia dipesa dall’emergenza sanitaria.

Home Office. Quando lo smartworking costituisce una stabile organizzazione del datore di lavoro?

L’OCSE rileva che il semplice svolgimento della prestazione in un luogo diverso dalla sede ordinaria (come, ad es., l’abitazione privata di un dipendente) a determinare stabile organizzazione della società, in quanto da solo questo assunto non implica necessariamente che tale luogo sia a disposizione del datore di lavoro.

Il luogo adibito temporaneamente ad ufficio diviene stabile organizzazione solo ed esclusivamente qualora ricorrano:

  1. l’attività è svolta in maniera continuativa presso quella determinata sede e
  2. l’impresa deve aver formulato un’esplicita richiesta al lavoratore di utilizzare quella sede per lo svolgimento dell’attività.

L’OCSE rileva come, nei casi di smartworking determinati dall’emergenza sanitaria non è possibile ravvisare:

  • il carattere della stabilità
  • della continuità nel tempo
  • il fatto che l’abitazione del lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro.

Il tutto in quanto in condizioni normali il datore di lavoro mette a disposizione del lavoratore un ufficio, che esclusivamente a fronte delle misure di emergenza, che raccomandano il lavoro da casa, rimane inutilizzato.

Quando invece il lavoro da casa sia utilizzato in modo continuativo per svolgere l’attività lavorativa ed è chiaro dai fatti e dalle circostanze che l’impresa ha chiesto all’individuo di utilizzare tale luogo (ad es. non fornendo un ufficio a un dipendente in circostanze in cui la natura dell’impiego richiede chiaramente un ufficio), l’ufficio del paese d’origine può essere considerato a disposizione dell’impresa. A titolo esemplificativo, quando un lavoratore frontaliero svolge la maggior parte del proprio lavoro dal proprio domicilio situato in uno stato piuttosto che dall’ufficio messo a sua disposizione sito nell’altro stato, il domicilio del dipendente non dovrebbe essere considerato a disposizione dell’impresa perché l’impresa non ha richiesto che la casa sia utilizzata per scopi lavorativi.

 

Cambio di residenza: l’impossibilità di svolgere la prestazione lavorativa nel luogo previsto dagli accordi aziendali, può determinare un cambio nello status di residente o meno del soggetto?

Quando un soggetto ha la propria residenza in entrambi gli stati coinvolti, ricorrono le regole a cascata indicate all’art.4 del modello OCSE (denominate tie-breaker rules).

Secondo l’OCSE, durante questo periodo, si possono delineare principalmente due ipotesi:

  1. il soggetto che trovandosi temporaneamente in uno Stato diverso da quello di residenza, è rimasto bloccato nel Paese “ospite” a fronte delle misure Covid-19 e, in seguito a tale permanenza, soddisfa i criteri nazionali per essere considerato ivi residente fiscale.

A fronte della durata della permanenza sul territorio del Paese in esame, il lavoratore potrebbe astrattamente essere ascritto alla categoria dei residenti fiscale (secondo le disposizioni domestiche), dobbiamo applicare le tie-breaker rules, verificando gerarchicamente i seguenti criteri:

  • dove si trova l’abitazione permanente
  • dove si trova il centro degli interessi vitali
  • dove soggiorna abitualmente il soggetto
  • dove ha nazionalità.

Poiché nella maggior parte dei casi il soggetto non avrà un’abitazione permanente nel Paese ospitante, lo Stato di residenza sarà tendenzialmente confermato. A questo fine tuttavia il commentario al Modello OCSE non rileva la necessità di un particolare titolo giuridico essendo sufficiente la disponibilità di un’abitazione (valgono anche gli affitti a breve termine). Pertanto, occorrerà dapprima verificare se il soggetto abbia mantenuto la propria casa nell’altro Stato o meno.

  1. Un soggetto, originario di un determinato Paese si sposta in un altro Stato, dove svolge la propria attività lavorativa e vi acquisisce la propria residenza fiscale. A fronte della pandemia, decide di tornare temporaneamente nello Stato di residenza precedente. Quindi, se pre-Covid-19 il contribuente poteva attese le tie-breaker rules ritenersi residente nel nuovo Stato di residenza, il rientro dovuto al Covid-19 presso lo Stato di origine potrebbe lasciar intendere che esiste un maggiore attaccamento verso quest’ultimo Paese.

L’OCSE pone in questi casi l’attenzione sul criterio del soggiorno abituale. Questo deve intendersi come il luogo dove si vive abitualmente o in cui si è solitamente presenti: deve ricorrere una combinazione di durata, frequenza e regolarità nella permanenza, che sia parte della routine del contribuente.

Pertanto, se i giorni trascorsi nello Stato di residenza precedente sono dovuti esclusivamente alle restrizioni Covid-19, ciò non comporterà una modifica significativa nella valutazione del soggiorno abituale della persona interessata – questa comunque richiederebbe una verifica relativa ad un lasso temporale sufficiente per accertarne la frequenza, la durata e la regolarità, criteri di per sé incompatibili con la situazione pandemica, principalmente connotata dal carattere della temporaneità (afferma l’OCSE).

 

Trattamento fiscale dei redditi di lavoro subordinato (art 15 modello OCSE)

Ai sensi dell’art. 15 del modello OCSE, tendenzialmente la competenza impositiva compete allo Stato di residenza del lavoratore, salvo che l’attività non sia svolta in un Paese diverso. Quest’ultimo viene individuato quale luogo in cui il lavoratore è “fisicamente presente mentre svolge l’attività per la quale percepisce il reddito”.

Il segretariato OCSE distingue a questo proposito quattro possibili situazioni:

  1. Frontalieri e sussidi dovuti dal datore di lavoro per il Covid-19

La politica di molti paesi durante la situazione emergenziale è stata quella di corrispondere incentivi economici ai lavoratori dipendenti. Secondo l’OCSE, questi sussidi devono essere ricondotti alla potestà impositiva dello Stato in cui solitamente il soggetto lavora. Concretamente questi sussidi potrebbero potenzialmente essere l’ultimo pagamento ricevuto dal dipendente e trattati:

  1. Come le indennità di fine rapporto, che, secondo il Commentario del modello OCSE, ricadono nella potestà impositiva del luogo in cui il lavoratore avrebbe altrimenti svolto la propria attività che, in epoca Covid-19, coincide con il luogo ove il lavoro era svolto prima dello scoppio della pandemia.
  2. Alla stregua di ferie retribuite o del congedo per malattia, anch’esso retribuito, categorie che non hanno mai sollevato, a parere dell’OCSE, grossi problemi a livello internazionale.

Secondo le linee guida, in conclusione il sussidio concesso dal Governo ad un lavoratore dev’essere imposto, ai sensi dell’art 15 Modello OCSE, nel Paese in cui avrebbe lavorato in condizioni normali.

  1. Lavoratori bloccati a fronte delle misure Covid-19

Ricadono in queste condizioni sia il lavoratore in quarantena (ad es., che ha contratto il virus ovvero che è entrato in contatto con un positivo) sia il lavoratore che venga a trovarsi vincolato negli spostamenti a fronte delle misure restrittive adottate a livello nazionale. In questo caso, bisogna verificare caso per caso le linee guida adottate dal paese interessato – alcuni paesi hanno ritenuto più corretto non applicare la nota regola dei 183 giorni di presenza sul territorio per l’assunzione dello status di residente fiscale, altri hanno previsto circostanze più dettagliate, ad es., decretando il necessario accertamento caso per caso oppure statuendo che tali circostanze non avrebbero comportato conseguenze fiscali per i contribuenti.

  1. Le disposizioni convenzionali per i lavoratori frontalieri

Alcuni stati in particolare hanno valutato la possibilità di mantenere lo status di frontaliere anche in assenza del requisito del rientro al proprio domicilio.

Molti Paesi hanno sottoscritto accordi con gli Stati confinanti (ad esempio l’Italia ne ha sottoscritti con l’Austria, la Svizzera e la Francia), regolando la situazione dei frontalieri. In molti casi, gli accordi prevedono delle deroghe, volte ad esonerare gli interessati dal rientro al domicilio, considerando in generale il tempo in cui l’attività è stata prestata da remoto, in particolari circostanze come la forza maggiore, alla stregua di quello speso sul territorio dello Stato della fonte, come se il dipendente si fosse regolarmente recato in ufficio.

  1. L’OCSE affronta il tema del telelavoro (e smartworking), dovendo con esso intendersi il lavoro del dipendente svolto da remoto, ossia in un luogo diverso dall’ordinario ufficio applicando alla lettera quanto disposto dall’art. 15 modello OCSE.

Due esempi:

  1. Un lavoratore residente nello Stato A svolgeva la propria prestazione nello Stato B, a fronte della pandemia svolge la propria attività direttamente dallo Stato A.

I riflessi di applicazione dell’art. 15 Modello OCSE:

(i) se il datore di lavoro è residente nello Stato B, quest’ultimo potrebbe esercitare la potestà impositiva sul reddito derivante dal rapporto di lavoro per il periodo in cui il lavoratore si trovava fisicamente sul suo territorio;

(ii) se il datore di lavoro non è residente nello Stato B (o non sostiene il costo del lavoratore tramite una stabile organizzazione ivi situata) e qualora il lavoratore spenda meno di 183 giorni nello Stato B, quest’ultimo perderebbe potenzialmente non poter tassare il reddito prodotto dal lavoratore;

  1. Un lavoratore residente nello Stato A resta bloccato nello Stato B a causa della pandemia. Comincia, quindi, a svolgere la propria attività lavorativa dallo Stato B.

Ai sensi dell’art. 15 Modello OCSE, premessa la regola del principio di territorialità della tassazione dei redditi, il contribuente potrebbe essere tassato in entrambi gli stati qualora non fossero presenti i tre requisiti derogatori elencati al comma 2 dello stesso art 15 del modello OCSE. Salvo accordi particolari, magari di applicazione temporanea, sottoscritta tra gli stati.

Su tutti i fronti l’OCSE è votata a escludere determinazioni derivanti da questa causa di forza maggiore, ovvero dall’emergenza sanitaria, sanando tutto ciò dallo stesso determinato.

 

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