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La materia dei pignoramenti nell’ambito del diritto del lavoro costituisce da sempre una questione tanto frequente nella pratica quanto annosa. Sebbene infatti la disciplina normativa sia più che datata (il riferimento è, in questo caso, al D.P.R. n. 180), molteplici sono ancora i dubbi applicativi ed interpretativi sul tema, soprattutto con riferimento alla posizione del datore di lavoro verso tale Istituto. I pignoramenti, ovvero procedimenti di recupero crediti a mezzo di aggressione ad un soggetto debitore, rappresentano, in ambito giuslavorista, un procedimento legale attraverso il quale un creditore, con il fine ultimo e legittimo di soddisfare il proprio interesse creditorio, agisce aggredendo i crediti futuri del lavoratore dipendente come, ad esempio, la retribuzione dovuta dalla Società presso la quale è assunto.
I pignoramenti: come vengono definiti nell’ordinamento italiano?
Come si anticipava in premessa, all’interno dell’ordinamento italiano troviamo un primo riferimento all’istituto dei pignoramenti, nell’art. 2 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 180 del 1950, laddove il legislatore dispone che “gli stipendi, i salari e le retribuzioni equivalenti” possano essere soggetti a pignoramenti entro i limiti specificamente previsti dalla norma in parola.
Una previsione analoga è poi contenuta nell’articolo 545 del Codice di Procedura Civile, laddove il legislatore ribadisce che gli emolumenti percepiti a titolo di “stipendio, di salario o di altre indennità” inerenti al rapporto di lavoro possano essere pignorate nella misura di un quinto “per i tributi dovuti allo Stato, alle Province e ai comuni, ed in egual misura per ogni altro credito”.
Le disposizioni in parola rispondono contemporaneamente a due necessità, entrambe oggetto di tutela da parte del Legislatore. In primis, vi è quella di garantire il soddisfacimento dell’interesse creditorio, attraverso il riconoscimento delle somme dovute a titolo di “retribuzione” quale ambito di azione per il soggetto creditore. Secondariamente, il Legislatore intende garantire la piena “dignità economica” del lavoratore che, nel caso in cui non fossero fissati dei limiti per legge, rischierebbe di vedersi espropriato e negato l’intero ammontare dello stipendio.
Proprio per tale ragione, il pignoramento può ritenersi esigibile nei limiti ivi riportati:
- un terzo dello stipendio, al netto delle ritenute, per causa di alimenti dovuti per legge;
- un quinto dello stipendio, per debiti verso lo Stato (in realtà sul punto la modifica del decreto n. 16 del 2012 ai fini della determinazione dell’effettivo limite prende in considerazione l’ammontare della retribuzione del lavoratore e, pertanto, il pignoramento potrà essere fissato in un quinto, decimo o settimo a seconda di quest’ultima);
- un quinto dello stipendio, verso aziende ed imprese da cui il debitore dipende, “derivanti dal rapporto di impiego o di lavoro”.
Pignoramento: quale procedimento seguire?
Chiarita, seppur brevemente, la definizione e l’ambito di applicazione del pignoramento, è opportuno approfondire, anche per una maggiore comprensione delle recenti novità normative introdotte dalla riforma Cartabia, le differenti fasi del procedimento che rendono efficace ed “esigibile” tale istituto, come definite dall’articolo 543 del Codice di Procedura Civile.
In primis, è importante sottolineare che il Pignoramento debba essere eseguito mediante “atto notificato al terzo e al debitore”, garantendo pertanto un meccanismo di conoscibilità al procedimento in esame.
Tale atto, come sovente avviene nell’ambito del diritto, necessita di un contenuto minimo e, per tale ragione, oltre all’ingiunzione del debitore, dovrà dare contezza anche delle seguenti informazioni.
- indicazione del credito;
- indicazione delle somme dovute e intimazione al terzo di non disporne senza ordine da parte dell’autorità giudiziaria;
- dichiarazione di residenza o elezione del domicilio;
- citazione del debitore a comparire davanti al giudice competente.
Portato a termine l’iter della prima fase, sarà compito dell’ufficiale giudiziario consegnare al creditore “l’originale dell’atto di citazione” in modo tale che il debitore possa procedere al deposito in cancelleria per l’iscrizione a ruolo entro trenta giorni dalla data di consegna, pena l’inefficacia del pignoramento medesimo.
Subentrano a questo punto le modifiche introdotte dalla riforma Cartabia le cui conseguenze, come si riportava in apertura, sono tutt’altro che irrisorie o meramente procedurali. Infatti, l’articolo 543 c.p.c. nella sua versione novellata, impone al creditore in primis l’obbligo di notificare al debitore e al terzo pignoratizio l’avviso dell’iscrizione al ruolo. Successivamente, l’obbligo di depositare l’atto notificato nel fascicolo dell’esecuzione entro l’udienza di comparizione.
In caso di inadempimento da parte del creditore delle disposizioni di cui al comma 4 dell’articolo 543 c.p.c.– per l’appunto, obbligo di notificare iscrizione al ruolo, numero di ruolo della procedura e deposito dell’avviso notificato del fascicolo dell’esecuzione, a risultarne inficiata è l’intera procedura di pignoramento che, infatti, si ritiene “inefficace”. Peraltro, il legislatore precisa come l’inefficacia del pignoramento, nel caso di procedimento plurimo, si produca esclusivamente nei “confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso”.
Quali difficoltà nella gestione?
La definizione e le regole basilari del pignoramento non sono però in grado di riflettere la complessità della gestione di tale istituto in capo alle Aziende e ai professionisti del settore. Anzitutto, tra le maggiori incertezze in materia si evidenziano i dubbi applicativi in caso di plurimi atti di pignoramento notificati al medesimo debitore. Nei confronti di più esecuzioni verso lo stesso lavoratore, il datore di lavoro sarà infatti chiamato ad una corretta gestione del fenomeno, tematica tutt’altro che banale.
Di fronte a tale situazione poi il datore di lavoro che, si ricorda, rappresenta un soggetto terzo rispetto al rapporto tra debitore-creditore del pignoramento sarà chiamato a definire, oltre che la concorrenza di più esecuzioni, anche l’ambito di applicazione degli stessi: la maternità obbligatoria, non trattandosi di stipendio, può ritenersi pignorabile? e qual è la coesistenza tra il versamento del t.f.r. a previdenza complementare e il pignoramento? il credito welfare – negli ultimi anni sempre più incentivato dal Legislatore – è idoneo ad avere ricadute sulla quota mensile di pignoramento?